Venezia, prima metà del 1500, San Canciano ai Biri Grandi
Il giovane aveva salito di corsa gli scalini fino all'alloggio dell'artista, come se il suo impeto potesse diradare l'aria satura dei vapori delle vernici, e accelerare la fine del dipinto. Il servitore lo seguiva invece con calma facendo strusciare i piedi sulla pietra, già annoiato dalle ore di attesa che lo aspettavano. L'uomo aveva nostalgia della sua casa ed era anche stanco di quell'incombenza che gli era stata affidata: proteggere il giovane signore fino alla fine del ritratto. In quello strano mondo pieno d'acqua, con tutta quella gente variopinta e quegli odori di spezie, diventava sempre più difficile mantenere la serenità e il controllo dei propri pensieri.
Venezia era un posto che gli metteva qualche brivido, soprattutto di sera, quando il rimbombo di passi alle sue spalle lo faceva sobbalzare e mettere subito la mano al pugnale. In fondo al cuore rimpiangeva di aver dovuto lasciare i cavalli di là della Laguna con gli altri servitori.
Anche il giovane aristocratico non vedeva l'ora di tornare verso Mantova e rimettere i piedi sulla terra salda e odorosa che a primavera si stava già risvegliando. Lo aspettavano il suo falco e le cavalcate lungo gli argini del fiume. Ricordava le dolci e tiepide giornate con il saldo cuoio della sella tra le gambe e, inconsapevolmente, annusava i guanti di pelle che per apparente vezzo portava con sé, ma che l'istinto gli aveva suggerito di tenere, per ricordare l'odore muschiato del suo castrone baio, fermo ormai da troppo tempo in una stalla sconosciuta.
Tiziano Vecellio, fermo davanti alla grande finestra aperta, lo stava aspettando.
L'artista era un pittore famoso, la sua leggendaria capacità di usare il pennello come fosse la mano di Dio aveva varcato terre e monti. Troppo impegnato a consegnare tele con santi, Madonne, e belle divinità non poteva affrontare nessun viaggio fuori di Venezia. Adesso costringeva i suoi clienti a raggiungerlo nel proprio studio, all'interno di quelle isole strette e affollate.
Dopo Rialto il giovane, affiancato dal suo servitore, aveva lasciato la gondola per proseguire a piedi e superare l'intrico delle calli e i canali, fino agli argini esterni. Lungo i moli, animati da un parlottare continuo e foresto, avevano incontrato marinai dallo sguardo torvo e pescatori seduti a trafficare sulle rive, che rispondevano agli insulti dei barcaioli:
- Galioto, cancaro, barca in cao, barca dei gai...
Dalle finestre e sulle porte, donne sfrontate e ciarliere e mocciosi insolenti si chiamavano in una cantilena dolce, mista al gracchiare dei gabbiani alti nel cielo terso.
Arrivati alla casa del pittore, la vista che si godeva dall'ultima riva verso tramontana era sorprendente, si spegneva ogni rumore e restava soltanto lo sciabordio dell'acqua su per l'argine, e qualche richiamo dal rio dei Mendicanti:
- Ohè, ohè pope ...
Tiziano Vecellio aspettava immobile davanti alla grande finestra aperta, la luce che entrava era limpida come il riflesso su un cristallo, perfetta per un artista.
Il giovane gentiluomo sapeva come e dove appoggiarsi, ma prima doveva spogliarsi del mantello come gli aveva gentilmente suggerito l'artista e seguire le sue indicazioni:
- Eccelenza me fazza el ben de sentarse qua viçin.
Gli diceva il Tiziano in quella lingua che ormai stava imparando, e gli indicava ogni volta un posto diverso, di qua e di là della stanza, vicino o lontano dalla finestra.
Il giovane vestiva secondo la moda spagnola, con abiti e calzabraga neri e un mantello con manica bordato di pelliccia. Aveva anche imparato a scegliere qualche stoffa lucida e preziosa da portare a casa, perché certe sciccherie si potevano trovare soltanto a Venezia.
Per il ritratto invece continuava a indossare i vecchi abiti scuri, con i quali si sentiva più a suo agio. Sotto la casacca e il farsetto portava una leggera camicia bianca in mussola di lino, ornata di trina ai polsi e sul collo. E nessun gioiello, a parte un lungo filo di corallo che Vecellio gli faceva mettere al collo con un pendente di topazio. Di suo aveva l'anello e nient'altro, i gioielli gli sembravano un artificio inutile. Dai guanti non si separava e, stranamente, il pittore non aveva detto nulla sul suo modo di portarli. Spesso, il giovane uomo guardava fuori dalla finestra, senza poter immaginare a cosa pensasse Tiziano quando lo guardava con quegli occhi scuri, profondi e attenti. Quello che non aveva ancora visto era il risultato di tutto quel traffico sulla tela, e quel continuo indagare dello sguardo dell'artista sul suo viso lo metteva a disagio.
A volte il giovane non riusciva a star fermo. Girava lo sguardo di lato per sfuggire a quegli occhi e gli guardava le mani con le unghie sporche di colore e si sentiva sconsideratamente inquieto. Allora Tiziano gli parlava:
- Qua xe tuto ciaro fin a le barene. L'aqua tagiada dal garbìn smove el pesse dal fondo e le cane che cresse nel palùo col vento fa un rumor de ossa....
Eccelenza, el pitor no scava e no 'mpasta fango e piere. Noaltri se camina in fondo al mar o andémo a lumàr e a pituràr sora na nuvola in çiel.
1 - Continua